La riforma voluta dal ministro Salvini rischia di non centrare l’obiettivo di riduzione dell’incidentalità, e neanche quello di promuovere la necessaria transizione ecologica nei trasporti.
di Federico Del Prete*
Domenica 17 novembre 2024 le associazioni e i movimenti della società civile italiana hanno indetto presidi in molte città, a partire da Roma, per manifestare il loro dissenso sulla riforma del Codice della Strada voluta dal governo italiano, che sarà votata in Senato con ogni probabilità il martedì 19, Giornata Nazionale delle Vittime della Strada. Legambiente aderisce alla mobilitazione nazionale. Questo articolo vuole motivare, sulla base di due notizie lombarde, la sostanziale inutilità e iniquità della riforma.
Leggi qui il comunicato stampa della mobilitazione.
Due sono le notizie sulle quali vorrei riflettere in questo articolo: la morte di Giorgia Coraini, investita a San Benedetto Po (MN) il 12 novembre 2024, e il lungo e accorato caveat del vicesindaco di Brescia, Federico Manzoni, sullo stato della mobilità nel capoluogo di provincia, affidato lo stesso giorno al «Corriere della Sera».
Il tragico, raccapricciante investimento della quindicenne mantovana fa vedere una volta di più come non solo l’età scolare, ma anche quella adulta – pensando alla conducente del mezzo che l’ha uccisa, un’altra donna di ventisei anni – non siano al sicuro mentre penserebbero di tornare semplicemente a casa da scuola, o di andare normalmente al lavoro.
Questo perché un tratto di strada dove c’è trasporto collettivo, motorizzazione individuale, servizi, logistica e forse addirittura una sparuta traccia di ciclabilità assomiglia invece a una landa texana – con tutto il rispetto per il Texas rurale, e per il borgo mantovano – piuttosto che a un luogo di relazioni e di crescita ben infrastrutturato, sicuro e coerente con il paesaggio, come potrebbe essere in una regione tra le più avanzate d’Europa.
La donna alla guida di quella utilitaria, risultata negativa ai test di legge, non è stata messa in condizioni di rallentare dai 70 Km/h consentiti su quel tratto di strada, pur essendo un ambito residenziale, mentre all’altra vittima non è stato concesso di aver salva la vita anche nel caso fosse caduta in una pericolosa distrazione, una cosa che può succedere a chiunque.
Nei prossimi giorni (la data più attendibile è quella di martedì 19 novembre 2024) in Senato sarà messo definitivamente ai voti il DDL sul nuovo Codice della Strada. Niente di davvero nuovo, in realtà: non è la profonda riscrittura di una legge ormai inadatta non solo a ridurre gli “incidenti” – le virgolette sono d’obbligo, non è possibile parlare di incidenti con oltre tremila morti ogni anno da decenni a questa parte – ma anche ad accelerare la transizione ecologica ed energetica, rispetto alla quale i trasporti sono davvero troppo indietro rispetto ad altri settori.
Si tratta invece dell’ennesima serie di cerotti, quasi tutti ideologici, messi su un ingestibile colabrodo normativo. L’attuale CdS, negli anni più volte pecettato senza un costrutto apparente, è infatti perlomeno contraddittorio, e su molti punti.
Per fare un esempio minimissimo: la vexata quaestio del se il conducente di una bicicletta possa o meno percorrere in sella l’attraversamento pedonale, argomento che tanto appassiona i cittadini sia in strada quando si verifica, sia dalle tastiere social, in genere presidiate da chi in bicicletta tutti i giorni non va.
Oppure, essendo spesso l’attuale codice pressoché impossibile da applicare, e non solo per la scarsità di controlli. Per fare a questo proposito un altro esempio minimo, ma mica poi tanto, stavolta di ordine ambientale, del come effettivamente riuscire a sanzionare il conducente di un’automobile che rimanga fermo o addirittura sosti lasciando il motore acceso, perché il conducente vorrebbe caldo, o fresco.
Servirebbe una norma che lo prescrivesse sempre, comunque e dovunque, non solo per impedire “di mantenere in funzione l’impianto di condizionamento d’aria nel veicolo stesso”, una condizione molto difficile da accertare.
O anche perché il CdS rimane drammaticamente lacunoso, come nel caso di una impeccabile efficacia e diffusione del controllo elettronico della velocità, che non trova pace ora e non avrà pace poi, dopo cioè che il Senato avrà eventualmente approvato il ‘nuovo’ DDL.
Difficilmente la riforma voluta dal ministro Salvini salverà vite. Almeno, non come si aspetterebbe lui stesso. Perché è esattamente questa l’urgenza del ministro, prima di altre: “Conto che entrando in vigore, il nuovo CdS riduca anche lo stramaledetto numero degli incidenti stradali, soprattutto tra i giovani tra 15 e 24 anni”, ha dichiarato pochi giorni fa, ingenuamente, in un incontro pubblico.
Non salverà vite perché non affronta il tema della mobilità in modo organico, ma soltanto ideologico, come detto. Da quello che si può capire dalle modifiche introdotte, per l’Italia la motorizzazione di massa sarebbe l’unica modalità di spostamento da tutelare davvero. Che, quindi, non si tocchi.
Anzi, sarà di fatto liberalizzata – ce ne fosse bisogno – perfino andando a ostacolare in tutti i modi il controllo della velocità, vero tabù per ogni conducente di mezzo a motore, così come di ogni politico di maggioranza. Per non parlare della sosta, liberalizzando anche il consumo di suolo pubblico.
Con questa riforma, se sarà mai approvata, la prossima donna sobria che rischierà di investire una ragazza, nel mantovano o altrove, non sarà esposta a nessun deterrente, o prescrizione aggiuntiva, che la mettano davvero al riparo dal trauma di aver tolto la vita a qualcun altro per futili motivi.
Non salverà vite perché, citiamo dal testo di legge in approvazione, “dall’attuazione delle disposizioni della presente legge non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.“. In altre parole, per la tanto auspicata sicurezza stradale da parte del governo non è stato impegnato neanche un euro.
Per fare dell’ironia, dovremmo dire che a fronte di diecimila “investimenti” l’anno (tale è la cifra per difetto dell’incidentalità in Italia nel 2023), l’investimento per portarli a zero è… zero. E non solo per la sicurezza stradale, ma anche per tutto il resto che un sano scenario della mobilità dovrebbe comprendere.
Arriviamo quindi a Brescia, e all’appello del vicesindaco. Federico Manzoni – un giurista – nella sua lunga intervista al Corriere mette la mobilità sostenibile al primo posto nelle priorità dell’amministrazione del sindaco Castelletti, dovendo però spiegare che
“(…) sulla questione dei fondi del TPL del tutto insufficienti inviammo una lettera al ministro sottoscritta anche dal precedente presidente della Provincia, Samuele Alghisi e firmata da 150 sindaci. Di centrosinistra e centrodestra. (…). Oggi casca l’asino, nel senso che al Governo c’è quella parte politica che prima polemizzava con lo Stato centrale perché la Lombardia era sotto finanziata. Governo che ha deciso anche di ridurre di un milione l’anno i finanziamenti per la metropolitana.“.
Cosa ha a che fare il taglio ai fondi per il Trasporto Pubblico Locale, € 1,5 Mld. negli ultimi dieci anni, come hanno indicato i sindacati nel loro “Manifesto del TPL” pubblicato per il recente sciopero nazionale, con la collisione stradale che ha ucciso la quindicenne mantovana? I due episodi sono in realtà strettamente correlati.
Quando non si investe in una serie storica positiva di finanziamenti al trasporto collettivo è molto difficile che le morti e i ferimenti diminuiscano per dei semplici emendamenti al Codice della Strada. Se non lo si fa, il tasso di motorizzazione individuale tende a crescere, come in Italia accade infatti praticamente senza sosta da vent’anni (per ciò che riguarda l’automobile, i dati 2022 contano 681 auto ogni 1000 ab.).
A questi livelli di motorizzazione, gli “incidenti” possono essere ridotti solo se a calare sono i veicoli che più li provocano.
In uno scenario di questo tipo, liberalizzare la velocità – cioè rendere più teneri e sporadici i controlli, centralizzando la discrezionalità su iniziative di moderazione del traffico – non aiuta di certo. Cosa andrebbe invece fatto, e cosa non è mai stato intrapreso da nessun governo, tantomeno dal ministro Salvini, per ridurre davvero lo “stramaledetto numero degli incidenti stradali”?
In Italia, con il tasso di motorizzazione pro capite che ci ritroviamo, sarebbe dare priorità al trasporto collettivo, e ridiscutere quella di una motorizzazione individuale fuori controllo perché fin troppo incentivata, oltre ogni ragionevolezza.
Finanziare bus, tram, metropolitane, treni, non autostrade. Finanziarne il servizio, le infrastrutture, l’esercizio, la qualità, l’attrattività, non una sola volta o spesso, ma sistematicamente, sempre.
Ridurre la velocità dei veicoli privati, mai permettendo che aumenti. Ridurre la loro velocità ovunque sia costruito, come nel caso della frazione Villa Garibaldi di San Benedetto Po in provincia di Mantova, dove è morta una ragazza. Riducendo il consumo di suolo causato dai veicoli privati nello spazio pubblico, introducendo una normativa seria, magari perché fiscalmente progressiva, sulla necessaria tariffazione di questo bene comune.
Si può essere ormai sicuri che l’incidentalità scenda dove, ad esempio, sia stato adottato il limite di 30 Km/h. Il contrario, invece, non emerge da nessuno studio scientifico, almeno a quei livelli.
Il governo ha ribadito di aver interpellato tutte le associazioni delle vittime della strada. Se lo ha fatto, non ha ascoltato, anche se il ministro ha dichiarato che “il 25% delle osservazioni fatte nelle audizioni è stato accolto”. Proprio una bella consolazione.
Che quindi non si dica, che il ministro non dica, che i familiari o le associazioni che lottano contro questa riforma avrebbero dato il loro assenso alle sue proposte. Che il governo rinunci piuttosto a questa iniquità, a questo Codice della Strage.
* Responsabile mobilità e spazio pubblico, Legambiente Lombardia