Il contributo di Legambiente al dibattito sulla prevenzione delle esondazioni nella Città Metropolitana di Milano
“La Milano metropolitana può e deve diventare laboratorio per l’attuazione della legge europea sulla Nature Restoration”
De-pavimentare i suoli urbanizzati è una buona idea, come lo è più in generale realizzare infrastrutture verdi per drenare le acque di pioggia in ambito urbano, ammesso di riuscire a proteggerle dalla sosta selvaggia tipica dei contesti altamente motorizzati.
Sebbene sembri banale, questo approccio, che qualcuno chiama ‘città spugna’, richiede una rivoluzione nella modalità di progettare e gestire le opere pubbliche e il verde urbano. Per Milano è sicuramente una rivoluzione necessaria ad affrontare le intemperanze di un clima in crisi, per il quale le opere idrauliche, dalle caditoie alle vasche di laminazione, finiscono per essere sistematicamente insufficienti, anche per l’inarrestabile crescita dell’urbanizzazione e della conseguente impermeabilizzazione dei suoli.
C’è un dato di cui occorre essere consapevoli quando ci si confronta con altre città europee: Milano è un nodo idraulico, un imbuto su cui convergono le acque di un bacino che dalle Prealpi Varesine si estende a ventaglio su Brianza, Comasco e Triangolo Lariano. Dal Lambro, al Seveso all’Olona, passando per una quantità di torrenti di cui si è persa la memoria, dal Pudiga al Guisa, dal Garbogera al Lura, dal Bozzente alle Trobbie, le acque finiscono tutte nel sottosuolo di Milano, convogliate in condotte realizzate nel secolo scorso.
Pensando di poterli declassare da torrenti a sottoservizi, Milano ha di fatto sottovalutato i corsi d’acqua del proprio paesaggio urbano, tanto che anche il PGT attuale continua a fingere che i quattrocento chilometri di reticolo idrico milanese non esistano: ed in effetti sono ben nascosti. Ben venga quindi la de-pavimentazione o la città spugna, per prevenire gli allagamenti urbani, ma non basteranno a gestire il regime di torrenti che mal si prestano ad essere imbrigliati in condotte sotterranee e vasche di contenimento.
Coprire i torrenti di Milano, così come regimarli in stretti alvei artificiali a monte, è stato un errore storico, impostato sul riduzionismo idraulico di un’epoca in cui il cambiamento climatico non era in agenda, e il territorio non era urbanizzato come lo è oggi in Brianza e nell’hinterland milanese. Fiumi e torrenti non si prestano a stare chiusi in un tubo, devono vedere il cielo, e farlo dal fondo di una golena che possa, all’occorrenza, colmarsi per accogliere gli eccessi di portata.
È il momento di chiudere i conti col secolo dell’idraulica milanese, e occorre farlo a partire dalla pianificazione, sia urbana che metropolitana. Pianificare non significa gestire (male) le trasformazioni che confermano un assetto esistente, ma darsi un orizzonte strategico, con una visione che guardi al lungo termine. E questa visione, a cui devono conseguire scelte operative coerenti, deve includere il ripristino del paesaggio fluviale cittadino e metropolitano, rigenerandone o ampliandone le pertinenze, riportandole progressivamente allo scoperto dovunque possibile, creando parchi fluviali per valorizzarle.
A partire dal Parco del Seveso, che in questo momento è un parco da immaginare, visto che il torrente è molto ben nascosto dal cemento per gran parte del suo corso, e in città non c’è un solo metro all’aperto.
La Milano metropolitana può e deve diventare laboratorio per l’attuazione della legge europea sulla Nature Restoration. Ricostruire i sistemi fluviali e torrentizi, ripristinarne il funzionamento, rigenerarne la produzione di servizi ecosistemici è una sfida esistenziale, non solo per la qualità del paesaggio urbano, ma anche per la sicurezza e, in generale, per il buon funzionamento dell’organismo metropolitano.