di Federico Del Prete*
La sicurezza stradale non è quasi mai in cima all’agenda delle priorità dei governi italiani, se non come motivo di proclama o come tattica di contorno su temi diversi. Meno ancora lo è in quella dei media, dove compare giusto in occasione delle tragedie più efferate, e usando sempre l’ormai ridicolo incipit di ‘incidente’.
Eppure, sarebbe la vera sicurezza di cui avrebbe bisogno questo paese. Non c’è credo bisogno di ricordare i numeri, ma lo faccio lo stesso: i cosiddetti incidenti, quelli con lesioni, sono circa centosessantacinque mila, oltre il settanta per cento dei quali in città. I morti, circa tremila. Ogni anno; fate voi i conti sulle ventiquattro ore. Il tema ha diversi strati, concentrici come quelli di una cipolla.
Non saprei dire quali in superficie e quali più in profondità – non sembra saperlo neanche chi sarebbe chiamato a decidere – e vado quindi anche qui in ordine sparso: città e territori poco sicuri, efficienti e accessibili per tutte le età, le abilità e i generi; le strade rivelano un senso civico mediocre, cartina di tornasole su come sia poi visibile anche altrove; i comportamenti in strada evidenziano regole disattese in altri settori della società civile, e molto altro. Poi – o prima – ci sono le vittime, i feriti, gli invalidi. Sullo sfondo, una motorizzazione individuale spaventosamente alta rispetto ad altre realtà europee, soprattutto nelle città.
C’è chi la chiama violenza, non senza argomenti convincenti. La violenza stradale è però a sua volta rivelatrice di malesseri più profondi che quasi nessuno prova prima di tutto a comprendere. In questo scenario post-apocalittico (l’apocalisse c’è già stata, ed è la motorizzazione di massa) Milano e la sua timida ma costante iniziativa per ridurre l’impatto dei veicoli più pericolosi sta giocando una parte diversa dal solito.
Invece di essere una sconfitta, la sentenza di annullamento della delibera da poco entrata in vigore sui dispositivi di sicurezza da installare sui mezzi pesanti, emessa ieri dal TAR Lombardia, è in realtà una piccola vittoria. Come ha già spiegato anche Arianna Censi, discussa responsabile della mobilità milanese, il TAR più che rispedire al mittente la pur fragile pratica lavorata dall’amministrazione milanese l’ha inoltrata ben in evidenza all’attenzione di un suo cittadino, temporaneamente fuori sede: Matteo Salvini, che da adesso ha la responsabilità diretta e inequivocabile di ogni ulteriore incidente legato a questi veicoli, non solo a Milano, e forse non solo a quei veicoli.
Preso com’è da mille pressanti impegni, il ministro e vicepremier non ha ancora risposto né a parole né con l’azione che gli compete. Il messaggio è però molto chiaro: il problema non è nella delibera, ma esiste a tutto tondo, e non è tra l’altro neanche nel perimetro delle inutili risoluzioni contenute nel DDL che Salvini si appresta a far diventare legge. I mezzi pesanti, soprattutto in una città ad elevata cantierizzazione come Milano, creano più problemi di quanti non ne risolvano. Con le vittime che fanno – a Milano sei vittime in un anno solo per questo, cinque delle quali erano donne – e con il distacco che provocano nei cittadini nei confronti di importanti investimenti infrastrutturali, come quelli in ciclabilità, per dirne solo un paio.
Dobbiamo quindi paradossalmente ringraziare la pochezza delle associazioni di categoria dei trasporti pesanti, mai presenti nel dibattito pubblico legato alle collisioni, anche solo per essere vicine ai propri operatori, benché illesi comunque coinvolti per la vita in quelle tragedie insieme alle loro famiglie e a quelle delle vittime. Giustamente stigmatizzata dalle realtà che compongono l’iniziativa ‘Città delle Persone’, la categoria degli autotrasportatori prova adesso a recuperare reputazione con una controproposta sugli orari di circolazione.
Quest’ultima proposta potrebbe entrare con molte altre in un discorso più ampio che il ministro Salvini non sta facendo sul Codice della Strada, una legge obsoleta e inadatta ad affrontare non solo le istanze della sicurezza stradale, ma anche la transizione energetica. Bisogna andare a lavorare, dice invece il ministro, altro che sensori, altro che Città 30 Km/h. Non possiamo rallentare. Dimentica così non solo le vittime dei mezzi pesanti, ma proprio la preoccupante percentuale di vittime del lavoro morte in itinere, percentuale che si sta riavvicinando al 44% pre-pandemico.
Sempre che si voglia avere una visione olistica, a trecentosessanta gradi e in profondità su un tema tanto complesso. Salvini manca però proprio di quei sensori che la sua città vorrebbe promuovere: quelli che riducono le zone cieche intorno a sé, dove non si riesce a vedere cosa succede, e dove si rischia di far morire le persone e di ostacolare la transizione energetica.